"https://www.youtube.com/watch?v=MbJcFyyu5Mk"

Tatuaggi sì, tatuaggi no. Inconsueto trovare qualcuno che, all’idea di farsi incidere la pelle, possa esternare un dubbioso “forse”. Il tatuaggio è infatti una pratica divisiva. Se c’è chi li ama, c’è chi li detesta. Raro che qualcuno possa trovarli indifferenti. Ma se non tutti i tatuaggi sono uguali — ce ne sono, infatti, una miriade — è pur vero che non tutti nascono dal medesimo scopo. Se, infatti, la più parte delle persone decide di rendere indelebile un dato ricordo — stabilendo quindi di far restare, per sempre, qualcosa di significativo che diventa permanentemente visibile — , possono esservi anche casi in cui si perviene ad una decisione all’apparenza opposta: quella di incidere la pelle non per mostrare una parte di corpo, bensì per nasconderla. E nascondendo uno spicchio di vissuto, in un certo senso, si dà a quello spicchio di vita passata un “destino” nuovo. É quanto accade, ad esempio, a chi decide di ricamare su una ferita, rendendola simbolo di gradimento e, al tempo stesso, testimonianza del superamento di un evento spiacevole. Un po’ come dare un superpotere proprio ad una disavventura, sorridendoci su. Con la forza dei grandi e con lo spirito artistico, uniti nell’alchimia preziosissima della trasformazione estetica. É quanto sarebbe alla base della tecnica giapponese kintsugi o kintsukuroi, tecnica consistente nell'utilizzo di oro e/o materiali affini per la riparazione di oggetti. Un vaso rotto, infatti, secondo la filosofia orientale, con interstizi d’oro che ricalcano i punti di sutura dell’oggetto scheggiato, varrebbe di più di un vaso da sempre e per sempre perfettamente integro.

E voi? Vi fareste tatuare un fiore sulla cicatrice di un’operazione?

 Elena Italiano